ERA STATA UNA GIORNATA DI VENTO. La mattina era caduta anche qualche goccia di pioggia. Nella sera ormai prossima il paese si risvegliava. Durante le ore di luce c’erano state le solite incursioni di passaggio: aerei che andavano a bombardare Catania e Messina, Siracusa e Comiso. La contraerea aveva sparato qualche colpo. Poi l’afa del pomeriggio aveva ristabilito il silenzio solo guastato dal sibilo di calde rafliche ventose e dal passaggio di qualche autocarro militare.
Il dottor Sebastiano Fortuna, uno dei medici di Pachino, poco prima delle otto uscì di casa per andare a fare una visita. Ebbe una stretta al cuore vedendo lo squallore delle distruzioni intorno alla piazza del suo paese e la gente che come ogni sera si preparava a partire per la campagna dove avrebbe passato la notte per evitare i lunghi allarmi e i bombardamenti. Lo sconforto lo coglieva ogni volta che posava lo sguardo sulla piazza di Pachino così malconcia. Subito rabbrividiva al pensiero di ciò che doveva ancora venire. Come tutti in paese, il dottor Fortuna non dubitava che un giorno o l’altro lì, nella punta estrema della Sicilia, si sarebbe combattuto duramente e che la guerra sarebbe passata in quella piazza quadrata. Come tutti, il dottor Fortuna aspettava lo sbarco: quella sera, fatti pochi passi nella piazza, il dottore fu raggiunto dalla sua donna di servizio: «È venuto un soldato, dottore, ha detto che l'aspettano subito al cinema, è urgentissimo». Al cinema Tafuri, lì vicino, il dottor Fortuna trovò una agitazione terribile. Nel cinema era stabilito il comando della città. Mentre entrava in un ufficio, sentì un uflîciale che ordinava per telefono: «La prima cosa, ricordatevi, è di rendere inservibile il campo d’aviazione. No, niente bidoni vuoti, bisogna prendere i trattori e ararlo subito. Ararlo, capito? » Il dottor Fortuna capì benissimo anche lui. Questa volta era lo sbarco sul serio. Il suo primo pensiero, lo ricorda ancora oggi fu di sorpresa. Ci avevano pensato tanto, ne avevano parlato così a lungo, ma tutti restarono come folgorati, quella sera dell'estate del 1943 quando i comandi militari della Sicilia annunciarono che l’isola era in “stato d’emergenza”. Al cinema Tafuri, un colonnello disse al dottor Fortuna che lo sbarco era previsto per la mattina del giorno dopo, avrebbero avuto bisogno di lui, doveva tenersi a disposizione. Il medico ricorda ancora che si domandò che giorno fosse l’indomani, pensando ai suoi impegni. Era il 10 luglio, sabato. Circa tre ore prima che il dottor Fortuna fosse chiamato al comando di Pachino, due idrovolanti Cant erano decollati dalla rada di Augusta per il normale turno di ricognizione serale. A grande altezza, verso le 18.30 si trovavano a nord di Malta, lungo una rotta che ormai era consueta ai ricognitori: a una ventina di miglia dalfisola, gli aerei iniziavano un vasto cerchio che li faceva girare in tondo sulla roccaforte per riportarli poi verso nord in direzione della Sicilia. I due aerei avevano quasi raggiunto il punto più meridionale della loro virata a largo raggio intorno a Malta, quando gli osservatori e i piloti si trovarono dinnanzi lo spettacolo più straordinario che avessero mai visto in tre anni di guerra. Tutto l’orizzonte a sud e a est di Malta era pieno di navi. Non potevano contarle. Saranno state mille, 2mila? Forse più. C’erano navi da guerra e da trasporto, piccole e grandi. C’erano anche aerei da caccia nelle vicinanze: ebbero soltanto il tempo di guardare ancora un attimo lo spettacolo e filare via. Gli osservatori, che erano ufficiali di Marina, cercarono di calcolare la rotta di quella enorme flotta. Qualche istante dopo, la base ricevette per radio il rapporto dei ricognitori: sei convogli diretti verso la Sicilia fra Gela e Capo Passero. Alle 19 l’annuncio arrivava al comandante in capo generale Alfredo Guzzoni nel suo quartier generale di Enna. Fu chiesta una conferma ad Augusta. La conferma arrivò 20 minuti dopo. Alle 19.25 l’allarme generale di massimo grado, chiamato convenzionalmente “emergenza”, fu dato a tutti i comandi costieri e interni della Sicilia.
Alla stessa ora, su una nave trasporto americana che faceva parte della flotta d'invasione e che era contrassegnata con un grande numero a prua e a poppa, un tenente dell' amministrazione dell’esercito degli Stati Uniti, Salvatore Pappalardo, leggeva alla luce del tramonto un foglietto dattiloscritto che era del generale George Smith Patton, comandante della VII armata. Diceva: «Quando sbarcheremo, incontreremo tedeschi e italiani che avremo l’onore e il privilegio di attaccare e distruggere. Molti di voi hanno nelle vene sangue tedesco e italiano, ma ricordate che i vostri avi amarono tanto la libertà da abbandonare la loro casa e la loro terra per varcare l’oceano in cerca di libertà. Invece gli avi di coloro che dovremo ora uccidere non ebbero il coraggio di far questo sacrificio e rimasero schiavi».
IL TENENTE PAPPALARDO sorrise leggendo il linguaggio alato del generale Patton. Lui avrebbe preferito che lo avessero destinato in qualche posto vicino a Catania, di dove erano partiti i suoi per l’America nel 1912, invece aveva in tasca l’ordine di organizzare l’amministrazione civile e militare a Pachino «appena fosse stata conquistata». Aveva anche un elenco di nomi di persone che avrebbe dovuto convocare appena arrivato sul posto, per trovare gli individui adatti a reggere l’amministrazione. In testa alla lista c’era un certo avvocato Corrado Bellomia. Il tenente Pappalardo non sapeva che l’avvocato Bellomia era morto da anni, riposava ormai in pace dopo molto sofirire per via del fascismo. Sua figlia aveva sposato il dottor Fortuna, che proprio quella sera dovette andare a Portopalo, esattamente dove si prevedeva lo sbarco, a curare il bambino di uno dei guardiani del faro di Capo Passero. Quello sarebbe stato il primo posto dell’Europa dove gli Alleati avrebbero rimesso piede dopo tre anni da Dunkerque (la sconfitta nella battaglia di Dunkerque, nel Nord della Francia, combattuta dal 26 maggio al 3 giugno 1940, costrinse l’esercito francese e il corpo di spedizione britannico a ripiegare, incalzati dalle truppe tedesche che avevano invaso la Francia, ndr). Era buio da non più di due ore quando da bordo di un Dc-3 in volo il colonnello James Maurice Gavin, detto Jumping Jim, Jim il saltatore, vide la costa della Sicilia sotto l’ala di sinistra dell’apparecchio. Era strano, perché nei voli precedenti fatti per preparare il lancio dei paracadutisti nella zona presso Gela la costa era sempre apparsa sulla destra dell’aereo. I piloti dissero che c’era molto vento, forse erano un po’ fuori rotta. «Non importa», disse il colonnello, «l’ordine è di lanciarsi in ogni caso. Accendete la luce verde fra due minuti». Al segnale verde nella carlinga, i paracadutisti si alzarono dalle panche e a uno a uno si lanciarono nel buio. Sotto di loro la Sicilia.
Ma sarà poi la Sicilia?
Gavin se lo domandava mentre scendeva lentamente appeso al paracadute. Non riconobbe nessuno dei segni particolari che si era fissato in mente durante i voli di ricognizione. Il dubbio gli rimase anche quando fu a terra e si trovò intorno non più di una decina dei suoi uomini, lui che era il comandante di un reggimento. Si sentiva qualche sparo in lontananza, ma per il resto la notte era silenziosa. Gavin decise di andare verso gli spari lontani. A West Point gli avevano insegnato che bisogna sempre dirigersi verso il rumore della battaglia. Ma poi gli spari cessarono. Dunque non c’era nessuna battaglia. Allora, come si fa?, si domandava il colonnello, che, come tutti gli americani dell’82 divisione paracadutisti, era alla sua prima azione di guerra. A un tratto udirono qualcuno che fischiettava in una stradicciola lì vicino. Il primo prigioniero della guerra in Sicilia, pensò subito Gavin. Si buttarono addosso all’uomo che veniva avanti con le mani in tasca tranquillo e lo immobilizzarono. Era un giovanotto con la testa grossa, magro. «Dove Siracusa?», «Dove Palermo?», domandò subito Gavin all’uomo che li guardava con gli occhi sbarrati. Il colonnello voleva orientarsi in qualche modo, se il siciliano lo avesse aiutato. Ma quello, muto come un pesce, tremante, emetteva solo suoni indistinti. Il sospetto di non essere in Sicilia, ma nei Balcani, tornò al colonnello. Evidentemente non soltanto il prigioniero non capiva l’italiano, ma non aveva mai sentito nominare né Palermo né Siracusa. A un tratto il prigioniero afferrò con la mano il coltello lucente che uno dei soldati gli teneva puntato sul ventre e cominciò a divincolarsi. Da un taglio profondo che si era fatto sulla mano nel prendere la lama uscì uno zampillo di sangue e 1’uomo si mise a gridare: «Mamma mia! Mamma mia!». Il colonnello Gavin tirò un sospiro. Almeno erano in Italia.
di Franco Pierini da L'EUROPEO n°49, 1961 Tratto da L'EUROPEO supplemento al CORRIERE DELLA SERA Giugno 2013