Peppina incontra la Storia. di Sergio Catania è possibile ingrandire le foto cliccandoci sopra
1. Il mondo di Peppina
Fino al giorno a cui si riferiscono i fatti che sto per raccontare, e quel giorno ha una data precisa perché di fatti veri si tratta, Peppina aveva vissuto a Pachino, un paesone agricolo all’epoca sobrio e modesto a ridosso di Capo Passero, la punta sud orientale della Sicilia.
Appoggiato su un mordibo montarozzo, il paese era rivolto a est verso il Mar Jonio, ma dai terrazzi delle case sulla sommità della collina si poteva vedere anche il Mar Mediterraneo, a ovest. A sud Capo Passero con la vicina Isola delle Correnti restava invece nascosto da un dosso roccioso punteggiato di carrubi, ‘a Carruedda; come le campagne a nord in direzione dei grandi feudi di Noto, a loro volta nascoste da un lungo rilievo di terra gialla, i Cozza, le colline.
Il mondo di Peppina arrivava fin dove arrivava il suo sguardo. Parlava dei pantani e delle campagne verso il Mediterraneo come di luoghi a lei familiari indicando nomi e ed in primavera andava a raccogliere erbe selvatiche lungo i fossati che portavano le acque piovane fino allo Jonio non lontano, le saie. Ma Capo Passero a sud e le campagne a nord le restavano del tutto sconosciuti, come se nel suo mondo ci fosse spazio solo per i luoghi che si potessero scorgere dal paese.
Cosa ci fosse oltre i Cozza o dietro ‘ a Carruedda lei non sapeva: era lì che poneva il confine tra il mondo conosciuto e quello che con inconsapevole sineddoche chiamava munnu persu, il mondo in cui ci si perde, una estensione geografica in cui collocava alla rinfusa ogni luogo negato al suo sguardo ed ogni luogo che distasse dal paese più di mezza giornata di carretto, vale a dire quanta strada si possa percorrere con l’asino sicuri di potere ritornare col sole.
Tuttavia, da qualche parte in quel munnu persu, lontano, più lontano di mezza giornata di carretto, Peppina sapeva che c’erano tre luoghi: Catania, dove era andata con un viaggio in carrozza di due giorni per farsi operare di appendicite; l’Africa Orientale Italiana dove Raffaele, un giovane con cui aveva stretto una promessa, era andato a cercare un posto al sole; e l’Inghilterra, dove lo stesso Raffaele allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale per sua fortuna era subito finito prigioniero.
Appoggiato su un mordibo montarozzo, il paese era rivolto a est verso il Mar Jonio, ma dai terrazzi delle case sulla sommità della collina si poteva vedere anche il Mar Mediterraneo, a ovest. A sud Capo Passero con la vicina Isola delle Correnti restava invece nascosto da un dosso roccioso punteggiato di carrubi, ‘a Carruedda; come le campagne a nord in direzione dei grandi feudi di Noto, a loro volta nascoste da un lungo rilievo di terra gialla, i Cozza, le colline.
Il mondo di Peppina arrivava fin dove arrivava il suo sguardo. Parlava dei pantani e delle campagne verso il Mediterraneo come di luoghi a lei familiari indicando nomi e ed in primavera andava a raccogliere erbe selvatiche lungo i fossati che portavano le acque piovane fino allo Jonio non lontano, le saie. Ma Capo Passero a sud e le campagne a nord le restavano del tutto sconosciuti, come se nel suo mondo ci fosse spazio solo per i luoghi che si potessero scorgere dal paese.
Cosa ci fosse oltre i Cozza o dietro ‘ a Carruedda lei non sapeva: era lì che poneva il confine tra il mondo conosciuto e quello che con inconsapevole sineddoche chiamava munnu persu, il mondo in cui ci si perde, una estensione geografica in cui collocava alla rinfusa ogni luogo negato al suo sguardo ed ogni luogo che distasse dal paese più di mezza giornata di carretto, vale a dire quanta strada si possa percorrere con l’asino sicuri di potere ritornare col sole.
Tuttavia, da qualche parte in quel munnu persu, lontano, più lontano di mezza giornata di carretto, Peppina sapeva che c’erano tre luoghi: Catania, dove era andata con un viaggio in carrozza di due giorni per farsi operare di appendicite; l’Africa Orientale Italiana dove Raffaele, un giovane con cui aveva stretto una promessa, era andato a cercare un posto al sole; e l’Inghilterra, dove lo stesso Raffaele allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale per sua fortuna era subito finito prigioniero.
2. I postumi di un intervento.
L’operazione di appendicite che Peppina subì da giovane, intorno ai 18 anni, sembra che non sia stata una brutta esperienza, ma quel che è certo è che ebbe conseguenze catastrofiche. A quei tempi in paese la gente moriva per una appendicite; la fortuna di Peppina quando ne fu colpita fu di appartenere alla chiesa valdese, che annoverava tra i suoi membri alcuni borghesi spiriti illuminati che avevano preso a buon cuore la causa dei diseredati, categoria a cui Peppina apparteneva per antica tradizione familiare. Nel momento del bisogno, quindi, Peppina fu messa in carrozza, portata d’urgenza a Catania in due giorni, fatta operare e ospitata per la convalescenza da una buona famiglia valdese.
La prova più dura di quel soggiorno a Catania, da quel che ne raccontò, non fu l’intervento chirurgico, ma le creanze di una buona tavola borghese: Peppina, che man giava facendo abbondante uso delle mani, si trovò per la prima volta nella sua vita a tavola con gente che mangia va il pesce con forchetta e coltello, e si vide costretta a fingere nausee e disappetenze che non aveva.
Quanto all’operazione, in sé e per sé dovette andare bene, ma il fatto è che senza l’appendice Peppina non fu più la stessa: non sappiamo se per via dell’intervento o per fatto puramente psicologico, i suoi intestini divennero instabili e sensibili al minimo accenno di ansia e preoccupazione. Per dirla in parole povere, ma non povere come quelle che usava lei, appena una cosa la metteva in agitazione, doveva andare di corpo.
Questo modo di fare, come potete capire, oltre ad essere di per sé sgradevole, rappresentava anche un serio inconveniente: Peppina era diventata donna su cui non si poteva fare il minimo affidamento, perché se c’era una qualsiasi piccola emergenza, lei doveva correre via.
A causa di questo suo problema, e grazie anche al profitto che imparò a trarne nel corso del tempo (“Mi si stan’antrucciuniannu i ‘uredda”, mi si stanno attorcigliando le budella, diceva quando qualcosa non le andava a genio, come fosse una minaccia), Peppina era tenuta in grande considerazione dalle due sorelle. Rosina, la maggiore, e Maria, la minore, facevano di tutto per evitarle ogni ansia, con una costanza e una dedizione che la dicono lunga su quanto dovesse essere difficile vivere in case senza servizi igienici, avere a disposizione solo una buca sotto la pila, sotto la vasca dell’acqua, e come se non bastasse avere una sorella come Peppina.
La prova più dura di quel soggiorno a Catania, da quel che ne raccontò, non fu l’intervento chirurgico, ma le creanze di una buona tavola borghese: Peppina, che man giava facendo abbondante uso delle mani, si trovò per la prima volta nella sua vita a tavola con gente che mangia va il pesce con forchetta e coltello, e si vide costretta a fingere nausee e disappetenze che non aveva.
Quanto all’operazione, in sé e per sé dovette andare bene, ma il fatto è che senza l’appendice Peppina non fu più la stessa: non sappiamo se per via dell’intervento o per fatto puramente psicologico, i suoi intestini divennero instabili e sensibili al minimo accenno di ansia e preoccupazione. Per dirla in parole povere, ma non povere come quelle che usava lei, appena una cosa la metteva in agitazione, doveva andare di corpo.
Questo modo di fare, come potete capire, oltre ad essere di per sé sgradevole, rappresentava anche un serio inconveniente: Peppina era diventata donna su cui non si poteva fare il minimo affidamento, perché se c’era una qualsiasi piccola emergenza, lei doveva correre via.
A causa di questo suo problema, e grazie anche al profitto che imparò a trarne nel corso del tempo (“Mi si stan’antrucciuniannu i ‘uredda”, mi si stanno attorcigliando le budella, diceva quando qualcosa non le andava a genio, come fosse una minaccia), Peppina era tenuta in grande considerazione dalle due sorelle. Rosina, la maggiore, e Maria, la minore, facevano di tutto per evitarle ogni ansia, con una costanza e una dedizione che la dicono lunga su quanto dovesse essere difficile vivere in case senza servizi igienici, avere a disposizione solo una buca sotto la pila, sotto la vasca dell’acqua, e come se non bastasse avere una sorella come Peppina.
3. Raffieli u scarparieddu
All’epoca dei fatti, dicevo, Peppina sapeva che nel munnu persu c’erano anche l’Africa Orientale Italiana e l’Inghilterra, ma erano semplici collocazioni del suo Raffaele, dubito che abbiano mai avuto natura geografica. Dell’Inghilterra, poi, è probabile che Peppina non abbia mai neppure pronunciato il nome, dato che Raffaele era semplicemente prigioniero dei ‘ncrisi, degli inglesi. Peppina conosceva Raffaele fin da quando era bambina, visto che abitavano vicino, ed era stata testimone della sua infanzia tristissima: la morte della madre quando lui era ancora bambino, la violenza del padre, u zu Menu; e quel fatale giorno in cui u zu Menu stava per ucciderlo di botte. Un vicino glielo aveva tolto di mano e se lo era portato in casa, dove lo aveva tenuto come un figlio e gli aveva insegnato un mestiere, il suo di calzolaio: fu così che a dieci anni Raffaele divenne u scarparieddu, come lo chiamava Peppina, e fu così che a causa di tutte le violenze subite questo scarparieddu avrebbe sentito presto il bisogno di fuggire da Pachino.
Il fatto di abitare vicino e di conoscersi fin da bambini, non permetteva però a Peppina e Raffaele di parlarsi, cosa troppo compromettente a quei tempi; e meno che mai di frequentarsi. Chi diede loro modo di farlo fu ancora una volta la chiesa valdese, dove i due, nella loro comune qualità di diseredati, avevano preso a frequentare scuole, mense e attività religiose.In quella congrega di eretici e scomunicati vari che era la chiesa valdese di Pachino, borghesi illuminati e socialcomunisti in cerca di riscatto se ne facevano un baffo delle convenzioni e organizzavano scampagnate, cene, filodrammatiche e unioni giovanili mischiando maschi e femmine, col risultato che i giovani finirono tutti per sposarsi tra di loro.
Furono i primi matrimoni d’amore del paese, non combinati dalle famiglie.
Furono i primi matrimoni d’amore del paese, non combinati dalle famiglie.
Così, quando Raffaele poco più che ventenne partì per l’Africa Orientale dietro le mille lire al mese che il regime colonialista gli offriva, promise a Peppina che appena messi da parte un po’ di soldi sarebbe tornato per sposarla, e lei gli promise che lo avrebbe aspettato.
Ma sarà stato per le difficoltà del ritorno, sarà stato per l’impazienza, sarà stato per suggellare ufficialmente una promessa mentre si preannunciavano tempi di guerra, sia come sia un bel giorno Raffaele e Peppina, anzi Pinuccia come la chiamava nelle frequentissime cartoline postali che le spediva dall’Africa, decisero di sposarsi senza aspettare il ritorno. Munita di una procura legale, ed accompagnata da un amico che Raffaele aveva chiamato a rappresentarlo, Peppina si presentò a un ufficiale d’anagrafe e dichiarò la sua volontà di unirsi in matrimonio.
Sarebbero passati più di sette anni prima che lo potessero consumare, quel matrimonio! Alla lontananza nel volgere di poco tempo si aggiunse la guerra, e poco dopo la prigionia di Raffaele.
Bisognerebbe andare ben al di là di questa storia per vederli finalmente insieme..
Contentiamoci per ora di sapere che Peppina racconterà sempre con orgoglio che quando Raffaele tornò dalla prigionia, un anno e mezzo dopo la fine della guerra, avrebbe potuto ai sensi di legge chiederle di dormire subito con lui, ma invece ne parlarono e decisero insieme di aspettare qualche giorno, giusto il tempo di preparare la cerimonia in chiesa e una festicciola. “ E poi queste cose non si fanno per legge”, le disse Raffaele.
Una foto che Peppina tenne sempre appuntata molto tempo.” alla cornice dello specchio del comò, li ritraeva sposi davanti alla chiesa valdese; era un falso, erano già marito e moglie da molto tempo.
Ma sarà stato per le difficoltà del ritorno, sarà stato per l’impazienza, sarà stato per suggellare ufficialmente una promessa mentre si preannunciavano tempi di guerra, sia come sia un bel giorno Raffaele e Peppina, anzi Pinuccia come la chiamava nelle frequentissime cartoline postali che le spediva dall’Africa, decisero di sposarsi senza aspettare il ritorno. Munita di una procura legale, ed accompagnata da un amico che Raffaele aveva chiamato a rappresentarlo, Peppina si presentò a un ufficiale d’anagrafe e dichiarò la sua volontà di unirsi in matrimonio.
Sarebbero passati più di sette anni prima che lo potessero consumare, quel matrimonio! Alla lontananza nel volgere di poco tempo si aggiunse la guerra, e poco dopo la prigionia di Raffaele.
Bisognerebbe andare ben al di là di questa storia per vederli finalmente insieme..
Contentiamoci per ora di sapere che Peppina racconterà sempre con orgoglio che quando Raffaele tornò dalla prigionia, un anno e mezzo dopo la fine della guerra, avrebbe potuto ai sensi di legge chiederle di dormire subito con lui, ma invece ne parlarono e decisero insieme di aspettare qualche giorno, giusto il tempo di preparare la cerimonia in chiesa e una festicciola. “ E poi queste cose non si fanno per legge”, le disse Raffaele.
Una foto che Peppina tenne sempre appuntata molto tempo.” alla cornice dello specchio del comò, li ritraeva sposi davanti alla chiesa valdese; era un falso, erano già marito e moglie da molto tempo.
4. Arriva la Storia
Ed ecco finalmente come fu che Peppina incontrò la Storia, quella grande, quella con l’iniziale maiuscola, perché è questo che voglio raccontare: fatti veri ed enormi che si studiano a scuola che per un istante incontrano altri fatti veri ma piccoli piccoli che a malappena si fissano nel ricordo dei protagonisti che poi al massimo li raccontano ai bambini quando fanno domande.
Correva la primavera del 1943, e la Guerra, quella con l’iniziale maiuscola anch’essa, aveva preso una svolta definitiva in Africa. I pachinesi avevano da tempo capito che ‘ncrisi e ‘miricani, conquistata l’Africa avrebbero fatto il grande salto in Sicilia, e che avrebbe puntato un piede a Pachino.
Perché proprio a Pachino? I pachinesi non facevano valutazioni di ordine strategico e tattico, semplicemente ce l’hanno nel sangue che il proseguimento naturale dell’Africa è Pachino.
Correva la primavera del 1943, e la Guerra, quella con l’iniziale maiuscola anch’essa, aveva preso una svolta definitiva in Africa. I pachinesi avevano da tempo capito che ‘ncrisi e ‘miricani, conquistata l’Africa avrebbero fatto il grande salto in Sicilia, e che avrebbe puntato un piede a Pachino.
Perché proprio a Pachino? I pachinesi non facevano valutazioni di ordine strategico e tattico, semplicemente ce l’hanno nel sangue che il proseguimento naturale dell’Africa è Pachino.
A parte i presentimenti locali, il
sospetto che l’esercito alleato si preparasse a uno sbarco in Sicilia, e proprio nella
zona di Pachino, aveva colpito anche le più alte sfere, che ben lungi dal dare disposizioni
per inchiodare il nemico al “bagnasciuga”, come imperterrito strafalcionava il capo,
molto più realisticamente facevano capire che era meglio farsi da parte.Raccontano infatti i pachinesi come poco prima dello sbarco il principino Umberto II, allora comandante del Gruppo Armate Sud, abbia fatto un sopralluogo nella zona e ispezionate le caratteristiche del terreno e le opere difensive, in parte semplici sagome di legno, abbia esclamato: “Amuninni, picciotti, cca nun c’è nenti a chi fari! ”, che tradotto vuol dire andiamocene, ragazzi, qui non c’è niente da fare! Una preziosa testimonianza dei rapporti di forza in quella primavera del ‘43, e una lancia a favore dei Savoia, che non erano tanto provinciali da parlare solo piemontese.
E così in previsione dell’inarrestabile sbarco dei ‘ncrisi il paese quasi si svuotò e molti dei suoi abitanti sfollarono nelle campagne verso l’interno. Peppina trovò posto in una casetta col tetto di canne tra i pantani vicino al Mediterraneo, in contrada u Scaru.
Con lei, oltre ai padroni di casa, c’erano i vecchi genitori, la sorella Rosina con una bambina di otto anni, e la sorella Maria con un bambino di due anni e una di sei mesi; dei loro rispettivi mariti sapevano che uno era prigioniero degli inglesi, e l’altro era effettivo a Bari.
Con lei, oltre ai padroni di casa, c’erano i vecchi genitori, la sorella Rosina con una bambina di otto anni, e la sorella Maria con un bambino di due anni e una di sei mesi; dei loro rispettivi mariti sapevano che uno era prigioniero degli inglesi, e l’altro era effettivo a Bari.
Quella casa vicino al mare sarebbe
stata la linea più avanzata davanti alle truppe alleate, ma per
fortuna dei suoi occupanti il loro sbarco non sarebbe stato
ostacolato.
La 206^ Divisione Costiera, a cui in
teoria era affidata la difesa dei 130 chilometri di costa che
andavano da Siracusa a Punta Braccetto, l’inizio del Golfo di Gela,
in vista dello sbarco andava cambiandosi d’abito:
ogni notte i pachinesi dovevano vedersela con soldati che chiedevano
abiti per vestirsi in borghese: abbiamo fatto il possibile e poi non
abbiamo visto più nessuno, raccontano.
I giorni immediatamente precedenti il 10 luglio furono costellati di oscuri avverti menti: “Priparativi, ca stan’ a trasiennu i ‘ncrisi”, preparatevi ché stanno per entrare gli inglesi.
A Peppina avevano spiegato che se fossero trasuti i ‘miricani doveva guardarsi dai negri, e se fossero trasuti i ‘ncrisi doveva guardarsi da quelli cco picciuni ‘n testa, le truppe coloniali col turbante, “il piccione in testa”. Vittima di tanti anni di propaganda razzista, aveva seri motivi per temere di non riuscire a portare la sua illibatezza fino al matrimonio, quello vero, con Raffaele: fino al matrimonio del falso fotografico, per intenderci, dato che quell’altro non aveva avuto effetti di sorta.Forse fu per questo estremo anelito verso Raffaele che il 9 luglio 1943, il giorno pri ma dello sbarco, Peppina decise che doveva andare in paese per vedere se era arrivata posta di Raffaele.
“Ma unni iti iennu?!”
Resta difficile capire come fu possibile che Maria, insieme a una bambina di sei mesi e a un bambino di due anni, si sia messa in cammino per accompagnare Peppina fino in paese, per andare a vedere se era arrivata posta di Raffaele; ma è proprio così che andarono le cose. Peppina non volle sentire ragioni, doveva andare fino in paese a vedere se era arrivata posta di Raffaele, e Maria coi piccoli al seguito la accompagnò.
E’ presumibile che quella di Peppina fosse un’esigenza dettata solo dall’ansia, e siccome sappiamo quale fosse l’effetto dell’ansia su di lei, possiamo immaginare che alla lunga si sia trattato di una questione di sopravvivenza, per lei e per gli altri inquilini. Qualunque sia stata la forza che le abbia mosse, queste due donne con due bambini piccoli in braccio si misero in cammino verso il paese, che distava quattro o cinque
chilometri. Quelle poche persone che incontrarono non mancarono di metterle in guardia: “ma unni iti iennu, ca stan’ a tra siennu i ‘ncrisi! ”, dove andate, ché stanno per entrare gli inglesi. Niente! Arrivarono in paese, lo trovarono deserto, e dietro la porta di casa, sotto la filazza, la fessura delle lettere, constatarono che non c’era posta di Raffaele. Peppina per la conseguente preoccupazione ebbe uno dei suoi turciuniuni ri ‘uredda e la circostanza, essendo stata tagliata la fornitura d’acqua, restò documentata fino al definitivo ritorno a casa della sorella Rosina, a cui si deve una puntigliosa e fin troppo dettagliata, bisogna dire, testimonianza.
Peppina e Maria, coi due bambini, decisero di dormire in paese e di ripartire la mattina presto.
I giorni immediatamente precedenti il 10 luglio furono costellati di oscuri avverti menti: “Priparativi, ca stan’ a trasiennu i ‘ncrisi”, preparatevi ché stanno per entrare gli inglesi.
A Peppina avevano spiegato che se fossero trasuti i ‘miricani doveva guardarsi dai negri, e se fossero trasuti i ‘ncrisi doveva guardarsi da quelli cco picciuni ‘n testa, le truppe coloniali col turbante, “il piccione in testa”. Vittima di tanti anni di propaganda razzista, aveva seri motivi per temere di non riuscire a portare la sua illibatezza fino al matrimonio, quello vero, con Raffaele: fino al matrimonio del falso fotografico, per intenderci, dato che quell’altro non aveva avuto effetti di sorta.Forse fu per questo estremo anelito verso Raffaele che il 9 luglio 1943, il giorno pri ma dello sbarco, Peppina decise che doveva andare in paese per vedere se era arrivata posta di Raffaele.
“Ma unni iti iennu?!”
Resta difficile capire come fu possibile che Maria, insieme a una bambina di sei mesi e a un bambino di due anni, si sia messa in cammino per accompagnare Peppina fino in paese, per andare a vedere se era arrivata posta di Raffaele; ma è proprio così che andarono le cose. Peppina non volle sentire ragioni, doveva andare fino in paese a vedere se era arrivata posta di Raffaele, e Maria coi piccoli al seguito la accompagnò.
E’ presumibile che quella di Peppina fosse un’esigenza dettata solo dall’ansia, e siccome sappiamo quale fosse l’effetto dell’ansia su di lei, possiamo immaginare che alla lunga si sia trattato di una questione di sopravvivenza, per lei e per gli altri inquilini. Qualunque sia stata la forza che le abbia mosse, queste due donne con due bambini piccoli in braccio si misero in cammino verso il paese, che distava quattro o cinque
chilometri. Quelle poche persone che incontrarono non mancarono di metterle in guardia: “ma unni iti iennu, ca stan’ a tra siennu i ‘ncrisi! ”, dove andate, ché stanno per entrare gli inglesi. Niente! Arrivarono in paese, lo trovarono deserto, e dietro la porta di casa, sotto la filazza, la fessura delle lettere, constatarono che non c’era posta di Raffaele. Peppina per la conseguente preoccupazione ebbe uno dei suoi turciuniuni ri ‘uredda e la circostanza, essendo stata tagliata la fornitura d’acqua, restò documentata fino al definitivo ritorno a casa della sorella Rosina, a cui si deve una puntigliosa e fin troppo dettagliata, bisogna dire, testimonianza.
Peppina e Maria, coi due bambini, decisero di dormire in paese e di ripartire la mattina presto.
Quella notte, la 1^ Divisione di Fanteria del Royal Canadian Regiment al comando del tenentecolonnello Ralph Crowe e la 51^ Divisione degli Highlander scozzesi del generale Leese, veterana di ElAlamein e della campagna d’Africa, sbarcarono a Pachino sul versante del Mar Mediterraneo, a ovest di Capo Passero. Alla prima fu assegnato il tratto di costa a ponente di Punta delle Formiche, e un percorso che puntando verso Ragusa la poneva a fianco delle truppe americane del Generale Patton che da Scoglitti e Gela avrebbero cercato di puntare verso il centro dell’isola; alla seconda fu assegnato il tratto di costa a levante della Punta, la Costa dell’Ambra, e un percorso che puntando dritto a nord verso Pachino, Rosolini e Palazzolo la poneva a fianco delle truppe inglesi in azione lungo la costa dello Jonio.
Tra le due donne e i due bambini che avevano dormito a Pachino, e il resto della famiglia che era rimasta ô Scaru si interponevano ormai le truppe di due diversi eserciti.
Ma avrebbero potuto anche essere quattro, se vi fossero stati soldati italiani e, dio ne scampi, tedeschi.
5. Campagni campagni incontro al fronte.
Il 10 luglio 1943, dunque, Peppina e la sorella Maria si alzarono di buon mattino nel paese deserto; l’una fece una truscia, un fagotto con qualche coperta e un po’ di biancheria e se lo mise in spalla, l’altra prese i suoi bambini e insieme si avviarono verso u Scaru.
All’uscita dal paese, il Mediterraneo sembrò come ricoperto da una coltre di nebbia, fenomeno estivo non raro da quelle parti; solo quando furono in aperta campagna Peppina e Maria distinsero le navi da cui stavano sbarcando soldati, camionette e carri armati: i ‘ncrisi erano trasuti!
Le due donne evitarono la prima ondata dei carri armati buttandosi in mezzo alle vigne.
Accovacciate tra le viti, Peppina in pieno tur ciuniuni ri ‘uredda, Maria coi bambini nascosti sotto la veste come una chioccia, videro passare a pochi metri la prima linea corazzata che impetuosamente portava avanti il fronte, ignare di quanto la fortuna le assistesse facendo marciare velocemente i carri in fila indiana sulla strada bianca e polverosa. Poi cercarono di affrettarsi verso casa andando incontro al fronte, campagni campagni per evitare brutti incontri.
Maria, con la bambina di sei mesi in braccio e il bambino di due anni per mano, fu fermata da un primo gruppo di soldati spuntato all’improvviso tra le viti: avevano la faccia tutta pittata di crema mimetica, e le spianarono i fucili addosso con fare deciso.
Non ebbe tempo di spiegare nulla, i soldati capirono subito che da lei non poteva venire nessun pericolo e sparirono.
Proseguendo verso u Scaru fu via via fermata da pattuglie di soldati un po’ meno decisi ma un po’ più curiosi, e ogni volta dovette far capire che stava tornando a casa dove c’erano i vecchi genitori. I due bambini, che vogliamo immaginare non dessero segni di disagio, dovettero esserle di molto aiuto per tranquillizzare gli interlocutori. I ‘ncrisi dimostrarono comunque grande civiltà, grazie anche al fatto che la giornata da quelle parti era tranquilla: fecero vedere a Maria libretti in cui c’era scritto di non toccare le donne, mostrarono le loro foto di famiglia e offrirono caramelle ai bambini. Caramelle che Maria confesserà di avere prudentemente buttato. .
Di Peppina sappiamo solo che doveva correre a ogni momento di qua e di là, dietro qualche vite. Nessuno ha mai parlato di imbarazzo, è probabile che in certe circostanze non ci sia spazio per queste finezze.
Alla fine Peppina, Maria e i due bambini arrivarono ô Scaru. Gli altri avevano avuto qualche momento di angoscia quando erano stati portati in spiaggia per essere imbarcati come prigionieri, ma poi un cablogramma molto ragionevole del comando aveva chiarito che non c’era motivo di farlo con quella povera gente innocua e spaventata, e così erano stati rilasciati. Ma ormai tutto era passato: nel momento in cui si raccontavano tra loro queste disavventure, il fronte era già arrivato a Noto.
Peppina non lo sapeva, ma tra un turciuniuni ri ‘uredda e l’altro aveva incontrato la VIII Armata inglese del Generale Sir Bernard Montgomery, nel momento in cui per prima metteva piede in Europa: un evento tanto carico di significato da essere salutato con gioia anche nei lontani ghetti dell’Est..
* Foto da http://anticapachino.weebly.com
** Fotogramma dal filmato “Sicilia 1943 Lo sbarco alleato”, le Nove Muse Editrice, Catania.
*** “Soldier’s Guide”, publicata su http://www.museosicilia1943.it/
Tra le due donne e i due bambini che avevano dormito a Pachino, e il resto della famiglia che era rimasta ô Scaru si interponevano ormai le truppe di due diversi eserciti.
Ma avrebbero potuto anche essere quattro, se vi fossero stati soldati italiani e, dio ne scampi, tedeschi.
5. Campagni campagni incontro al fronte.
Il 10 luglio 1943, dunque, Peppina e la sorella Maria si alzarono di buon mattino nel paese deserto; l’una fece una truscia, un fagotto con qualche coperta e un po’ di biancheria e se lo mise in spalla, l’altra prese i suoi bambini e insieme si avviarono verso u Scaru.
All’uscita dal paese, il Mediterraneo sembrò come ricoperto da una coltre di nebbia, fenomeno estivo non raro da quelle parti; solo quando furono in aperta campagna Peppina e Maria distinsero le navi da cui stavano sbarcando soldati, camionette e carri armati: i ‘ncrisi erano trasuti!
Le due donne evitarono la prima ondata dei carri armati buttandosi in mezzo alle vigne.
Accovacciate tra le viti, Peppina in pieno tur ciuniuni ri ‘uredda, Maria coi bambini nascosti sotto la veste come una chioccia, videro passare a pochi metri la prima linea corazzata che impetuosamente portava avanti il fronte, ignare di quanto la fortuna le assistesse facendo marciare velocemente i carri in fila indiana sulla strada bianca e polverosa. Poi cercarono di affrettarsi verso casa andando incontro al fronte, campagni campagni per evitare brutti incontri.
Maria, con la bambina di sei mesi in braccio e il bambino di due anni per mano, fu fermata da un primo gruppo di soldati spuntato all’improvviso tra le viti: avevano la faccia tutta pittata di crema mimetica, e le spianarono i fucili addosso con fare deciso.
Non ebbe tempo di spiegare nulla, i soldati capirono subito che da lei non poteva venire nessun pericolo e sparirono.
Proseguendo verso u Scaru fu via via fermata da pattuglie di soldati un po’ meno decisi ma un po’ più curiosi, e ogni volta dovette far capire che stava tornando a casa dove c’erano i vecchi genitori. I due bambini, che vogliamo immaginare non dessero segni di disagio, dovettero esserle di molto aiuto per tranquillizzare gli interlocutori. I ‘ncrisi dimostrarono comunque grande civiltà, grazie anche al fatto che la giornata da quelle parti era tranquilla: fecero vedere a Maria libretti in cui c’era scritto di non toccare le donne, mostrarono le loro foto di famiglia e offrirono caramelle ai bambini. Caramelle che Maria confesserà di avere prudentemente buttato. .
Di Peppina sappiamo solo che doveva correre a ogni momento di qua e di là, dietro qualche vite. Nessuno ha mai parlato di imbarazzo, è probabile che in certe circostanze non ci sia spazio per queste finezze.
Alla fine Peppina, Maria e i due bambini arrivarono ô Scaru. Gli altri avevano avuto qualche momento di angoscia quando erano stati portati in spiaggia per essere imbarcati come prigionieri, ma poi un cablogramma molto ragionevole del comando aveva chiarito che non c’era motivo di farlo con quella povera gente innocua e spaventata, e così erano stati rilasciati. Ma ormai tutto era passato: nel momento in cui si raccontavano tra loro queste disavventure, il fronte era già arrivato a Noto.
Peppina non lo sapeva, ma tra un turciuniuni ri ‘uredda e l’altro aveva incontrato la VIII Armata inglese del Generale Sir Bernard Montgomery, nel momento in cui per prima metteva piede in Europa: un evento tanto carico di significato da essere salutato con gioia anche nei lontani ghetti dell’Est..
* Foto da http://anticapachino.weebly.com
** Fotogramma dal filmato “Sicilia 1943 Lo sbarco alleato”, le Nove Muse Editrice, Catania.
*** “Soldier’s Guide”, publicata su http://www.museosicilia1943.it/